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Attualmente, circolano molte credenze e luoghi comuni sulla fusione nucleare controllata. Uno di questi consiste nel ritenere che la fusione nucleare non debba lasciare scorie radioattive.

Secondo un’altra leggenda popolare, la fusione produce scorie però la radioattività scema dopo qualche decina di anni ed i materiali possono essere utilizzati nel reattore stesso. In questo articolo vedremo che queste voci non sono del tutto vere. Dopo aver visto quali scorie produce la fusione e come esse possono essere confinate, cercheremo di fare chiarezza sui
concetti di fattore Q di ignizione della fusione e di breakeven di un reattore, al fine di fare luce sul vero significato della notizia sull’LLNL ed in modo da essere preparati a comprendere tutti gli annunci futuri sulla fusione nucleare.

Infatti, visto che questi concetti sono ampiamente utilizzati per definire lo stato di avanzamento di un prototipo di reattore a
fusione, e data l’ambiguità del linguaggio adottato negli annunci stampa, è di fondamentale importanza sviluppare un proprio senso critico, in modo da non farsi trarre in inganno ed essere in grado di interpretare correttamente il vero significato delle notizie. Un concetto comunque è chiaro: una volta che avremo imparato come realizzare il processo in modo controllato e sostenuto, realizzeremo il grandissimo sogno di ottenere una quantità di energia elettrica così grande che non varrà la pena misurarne il consumo.

La fusione nucleare controllata: iniziative e progetti.
Per cominciare, dobbiamo cercare di capire perché se la fusione deuterio-trizio produce elio-4 che è un gas inerte alla fine si formano delle scorie radioattive. Dopo aver visto che tipo di scorie si producono, dobbiamo stabilire quale è il loro tempo di dimezzamento, ovvero quanto tempo sarà necessario per immagazzinarle (o più propriamente per stoccarle) in un luogo sicuro prima che la loro pericolosità scenda sotto i limiti di sicurezza. Inoltre dobbiamo vedere se sarà necessario, come nel caso delle scorie della fissione, ricorrere a depositi geologici sotterranei. Infine, dobbiamo capire per quale ragione, se la fusione produce scorie, essa rappresenterebbe un miglioramento rispetto alla fissione e, soprattutto se può esistere un tipo di reattore a fusione che sia in grado di funzionare senza produrre scorie.

La fusione nucleare ha una lunga storia. Essa fu riconosciuta come potenziale fonte di energia quasi contemporaneamente alla fissione. In una riunione in cui si tiravano le somme del Progetto Manhattan, verso la fine del 1945, Enrico Fermi, che aveva guidato il progetto per la costruzione del primo reattore a fissione, a Chicago, durante la Seconda Guerra Mondiale (la famosa pila atomica di Fermi) prevedeva un futuro in cui si sarebbero usati reattori a fusione per la generazione di energia. Gli scienziati riuscirono a capire come rilasciare l’energia della fusione appena qualche anno più tardi, ma solo nella forma delle esplosioni incontrollate e distruttive della bomba all’idrogeno. Una volta che avessimo imparato come realizzare il processo in modo controllato e sostenuto, prevedevano alcuni scienziati, l’elettricità sarebbe diventata così economica che non sarebbe valsa la pena misurarne il consumo.

In figura 1 è riportata una foto del famoso tokamak JET, sito nel Regno Unito. Negli ultimi tempi sta sempre più aumentando l’interesse verso impianti più piccoli con una configurazione più sferica, simile a quella di una mela senza il torsolo. L’UKAEA (United Kingdom Atomic Energy Authority che è attualmente l’Ente Britannico per l’energia nucleare) sta portando avanti un progetto pilota con uno di questi dispositivi, lo Spherical Tokamak for Energy Production (STEP) che oggi è in fase di progetto e sarà sviluppato parallelamente ad ITER. L’idea della struttura sferica è stata sperimentata con successo a livello di prova di principio, con un dispositivo chiamato Mega Ampere Spherical Tokamak (MAST), che è stato in funzione dal 1999 al 2013 sotto il controllo dell’UKAEA e della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom).

Figura 1 – Foto del tokamak JET (UK)

Questi dispositivi più piccoli presentano una maggiore densità energetica e quindi un rischio maggiore di danni dovuti al calore, soprattutto in fase di estrazione del combustibile esausto caldo. Una versione migliorata, MAST Upgrate, è stata attivata nel 2020 ed ha avuto successo nell’estrazione del calore, con un’efficienza di circa 20 volte superiore a quella del modello originale e questo risultato potrebbe aprire davvero le porte all’idea di realizzare una centrale elettrica compatta. Se si riesce a confinare il combustibile della fusione (composto da deuterio e trizio), l’energia rilasciata permette alla fusione di autosostenersi.

Ma come si fa ad imbottigliare il plasma ad una temperatura di circa 100 milioni di gradi kelvin, molto più calda di quella del Sole? Non esiste nessun materiale noto in grado di resistere a condizioni così estreme. Anche i materiali più resistenti al calore come il tungsteno o il carburo di silicio, fonderebbero all’istante. La soluzione che si preferisce da tempo nella progettazione dei reattori è il confinamento magnetico: si confina il plasma dotato di carica elettrica in una sorta di bottiglia magnetica cosi chiamata in quanto formata di enormi campi magnetici, in modo che non debba toccare mai le pareti del contenitore.

Il processo di confinamento richiede un controllo estremo. Il plasma estremamente caldo non rimane fermo e tende a sviluppare alti gradienti termici che generano forti correnti convettive le quali a loro volta generano turbolenza e lo rendono difficile da gestire. Tali instabilità, simili a piccole eruzioni solari, possono far sì che il plasma entri in contatto con le pareti e le danneggi. Altre instabilità del plasma possono produrre fasci di elettroni ad alta energia che perforano il rivestimento della camera di reazione. Bloccare o almeno tenere sotto controllo queste fluttuazioni è una delle sfide più serie per i progettisti di macchine per il confinamento magnetico.

In figura 2 vi è una veduta del tokamak italiano sito presso i laboratori di Frascati. Uno dei maggiori ostacoli alla fusione a confinamento magnetico è il bisogno di materiali in grado di resistere al trattamento a cui li sottopone il plasma in fusione. In particolare, la fusione deuterio-trizio crea un flusso intenso di neutroni ad alta energia che urtano i nuclei degli atomi nel metallo delle pareti e del rivestimento, dando origine a piccole macchie in cui il metallo fonde. In seguito il metallo cristallizza di nuovo, anche se rimane indebolito con alcuni atomi spostati rispetto alla posizione iniziale.

Fig.2 Il tokamak di Frascati

Nel rivestimento di un reattore a fusione, ogni atomo si può spostare per circa 100 volte nell’arco della durata utile dell’impianto. Le conseguenze di questo bombardamento intenso di neutroni non sono ancora note perché finora la fusione non è mai stata sostenuta per lunghi periodi che sarebbero necessari in un reattore funzionante. In realtà non conosciamo e probabilmente continueremo a non conoscere con esattezza la degradazione dei materiali e la loro durata utile finché non avremo in funzione una vera e propria centrale elettrica a fusione. In ogni caso, si possono ottenere informazioni importanti su questi problemi di degradazione con un semplice esperimento che genera intensi flussi di neutroni da usare per testare i materiali.

Una struttura di questo tipo dovrebbe entrare in funzione a Granada, in Spagna, poco dopo il 2030: si tratta di un progetto basato su un acceleratore di particelle e chiamato International Fusion Materials Irradiation Facility-Demo Oriented Neutron Source. Un’altra struttura simile, la Fusion Prototypic Neutron Source è stata proposta negli Stati Uniti ma è ancora in attesa di approvazione. Non è sicurissimo che questi problemi relativi ai materiali si possano risolvere. Se dovessero rivelarsi insormontabili, un’alternativa consiste nel realizzare le pareti interne del reattore in metallo liquido, che non viene danneggiato dal processo di fusione e ricristallizzazione.

Un’altra grande sfida consiste nel produrre il combustibile per la fusione. Come ben sappiamo sul nostro pianeta il deuterio è molto abbondante: questo isotopo costituisce lo 0,016% dell’idrogeno presente in natura, per cui i mari ne sono letteralmente pieni. Invece il trizio si forma in natura solo in piccole quantità ed ha un decadimento radioattivo con un tempo di dimezzamento di appena 12 anni, per cui continua a scomparire e a dover essere prodotto di nuovo. In linea teorica è possibile generarlo nelle reazioni di fusione perché i neutroni della fusione interagiscono con il litio e lo producono. Nella maggior parte dei casi, i progetti dei reattori includono questo processo di generazione e circondano la camera di reazione con un rivestimento di litio (quest’ultimo infatti, bombardato dai neutroni produce trizio).

La fusione nucleare e la costruzione di macchine colossali
Il progetto del reattore a fusione più grande del mondo è come ben sappiamo, il progetto ITER che sarà il primo reattore a fusione a dimostrare che è possibile una produzione continua di energia sulla scala di una centrale elettrica (circa 500 megawatt). Trattasi di un tokamak con un raggio di 6,2 metri ed una massa di 23000 tonnellate. I lavori di costruzione sono iniziati nel 2007 e la sua entrata in funzione, inizialmente prevista per il 2035 sarà forse rinviata al decennio 2030-2050.

Comunque ITER non produrrà energia per uso commerciale. Trattasi infatti di un dispositivo esclusivamente sperimentale che intende risolvere i problemi ingegneristici ed aprire la strada a centrali elettriche funzionanti. Probabilmente i tokamak usati nelle centrali elettriche non dovranno essere altrettanto colossali e di certo dovranno costare meno di ITER. Negli ultimi tempi sta aumentando l’interesse verso impianti più piccoli con una configurazione più sferica, simile a quella di una mela senza il torsolo. L’UKAEA sta infatti portando avanti un progetto pilota con uno di questi dispositivi, lo Spherical Tokamak for Energy Production o STEP che oggi è in fase di progettazione e sarà sviluppato parallelamente ad ITER.

In figura 3 è riportato un disegno che mette a confronto la configurazione e le dimensioni di STEP con la forma e le dimensioni di ITER. Gli omini disegnati nelle figure dovrebbero fornire un’idea delle dimensioni dei due impianti. STEP vuole essere un prototipo di centrale elettrica con guadagno netto di energia. L’impianto è ancora in fase di progettazione concettuale, ma il governo britannico si sta già dando da fare per una sua rapida realizzazione e nell’ottobre 2022 i direttori del progetto hanno scelto il sito di costruzione: una centrale elettrica a carbone nel nord dell’Inghilterra che è stata da poco dismessa e sta per essere demolita.

Figura 3 – Confronto dimensionale tra ITER e STEP.

Il sito dispone già di un sistema di approvvigionamento liquido per le operazioni di refrigerazione ed è collegato alla rete elettrica nazionale e a quella ferroviaria. Anche l’Unione Europea sta progettando un prototipo di centrale chiamata DEMOnstration Power Plant (o più semplicemente DEMO) successore di ITER che per la prima volta dovrebbe immettere in rete l’energia elettrica. L’impianto gestito dal consorzio EUROfusion, prevedeva inizialmente una potenza di 500 MW, ma lo scorso anno, a seguito delle incertezze dovute al ritardo di ITER, il consorzio ha deciso di ridimensionare l’obiettivo, portandolo a circa 200 MW.

In figura 4 è riportata una foto del plasma che scorre nella camera di fusione della National Ignition Facility, di cui parleremo tra breve. Comunque non esistono soltanto i progetti nazionali ed internazionali. I piccoli tokamak sferici sono una delle tecnologie che hanno messo la fusione alla portata delle aziende private. Le start-up dedicate alla fusione sono spuntate a decine in tutto il mondo e la Commonwealth Fusion Systems (CFS) nel Massachusetts, la General Fusion in Canada e la Tokamak Energy nel Regno Unito ne sono degli esempi.

Figura 4 – Getto di plasma nella camera della NIF

Con il sostegno dell’UKAEA la General Fusion ha da poco iniziato la costruzione di un impianto dimostrativo che spera di
mettere in funzione entro il 2025. Intanto CFS, in partenariato con il Plasma Science and Fusion Center (PSFC) del MIT di Boston ed altri organismi sta costruendo un prototipo chiamato SPARC che secondo le previsioni sarà anch’esso pronto per il 2025. SPARK sarà un tokamak di medie dimensioni in cui il plasma è saldamente confinato da campi magnetici intensissimi prodotti da nuovi magneti superconduttori ad alta temperatura, studiati dal MIT e presentati nel 2021.

Questi magneti sono stati accolti come un grande passo avanti per la fusione a confinamento magnetico, perché la densità di energia del plasma aumenta rapidamente man mano che aumenta l’intensità del campo magnetico. Il gruppo che lavora a SPARC intende ottenere un guadagno netto di energia del plasma (ricavando circa 10 volte più energia rispetto a quella immessa) e generare tra i 50 e i 140 MW di energia da fusione. Anche se SPARC è molto più piccolo di ITER, il direttore del PSFC, Dennis Whyte afferma che ha una missione simile, che consiste nel risolvere i problemi scientifici e tecnologici che ancora sussistono nella via che porta allo sfruttamento commerciale della fusione. Analogamente a ITER, il dispositivo non immetterà energia nella rete nazionale, ma vuole aprire la strada all’idea di un reattore a fusione economico robusto e compatto, sviluppata dal MIT e perseguita dal CFS.

Varietà di progetti e problemi legati allo smaltimento delle scorie
Le soluzioni per la fusione a confinamento magnetico non si limitano esclusivamente ai tokamak. Negli anni cinquanta il celebre astrofisico Lyman Spitzer noto nel mondo scientifico (e non solo) anche per aver ipotizzato la realizzazione del telescopio spaziale Hubble, sostenne che il plasma si sarebbe potuto confinare anche in modo più efficiente in una camera toroidale con pareti ad anello attorcigliato. In questa configurazione, il sistema poteva confinare il plasma usando campi magnetici generati da correnti nel plasma stesso.

La struttura di questo sistema, chiamato stellarator è più complessa e difficile da realizzare a livello ingegneristico ma vi
sono alcuni progetti molto promettenti in questo senso ed in figura 5 si può vedere un disegno che illustra quella che è la configurazione di base di uno stellarator. Un esempio illuminante è lo stellarator Wendelstein 7-X a Greifswald, in Germania, completato nel 2015 ed oggi di nuovo in funzione dopo un intervento di potenziamento durato tre anni. La tecnologia è ancora ad uno stadio relativamente iniziale, per cui è probabile che se ad un certo punto si dovesse proprio ricorrere a questo sistema, i tempi necessari per realizzare la fusione con impianti utilizzabili a livello commerciale, si dilaterebbero nuovamente.

Figura 5 – Struttura generale di uno stellarator.

In figura 6 è riportata una fotografia di un segmento del contenitore attorcigliato usato per il plasma nell’esperimento di fusione dello stellarator Wendelstein 7-X. Naturalmente, quando si parla di fusione calda per contraddistinguerla dalla fusione fredda oggi ribattezzata LERN, non si può fare a meno di citare l’altra strada che si sta seguendo in alternativa alla fusione a confinamento magnetico: la fusione a confinamento inerziale, relativamente alla quale, il NIF (National Ignition Facility), in California è forse il centro più avanzato.

Figura 6 – Segmento del Wendelstein 7-X

La strategia del NIF (o della NIF) è diversa da tutti i progetti di cui si è finora parlato. Invece di usare una grande quantità di plasma confinato da campi magnetici, l’esperimento della NIF accende una piccola sfera di deuterio e trizio. Si innesca la fusione con una compressione rapida ed un intenso riscaldamento del plasma, che quando è in fase di fusione è tenuto fermo brevemente solo dalla sua stessa inerzia. La NIF raggiunge le condizioni estreme necessarie all’innesco concentrando sul bersaglio fasci laser a grande intensità.

L’energia di fusione è rilasciata in una breve scarica prima che il plasma caldo si espanda, perciò la produzione avviene in modo pulsato e bisogna introdurre continuamente nuove capsule di combustibile nella camera di reazione. In figura 7 è schematizzato il funzionamento della fusione a confinamento inerziale. Secondo le stime della maggior parte degli esperti, per rendere utilizzabile questa metodologia le capsule andrebbero sostituite circa 10 volte al secondo. Le difficoltà della fusione a confinamento inerziale sono però così scoraggianti che attualmente sono poche le strutture in tutto il mondo che studiano tale metodologia.

Figura 7 – Meccanismo del confinamento inerziale.

Oltre alla NIF, che è la più grande, possiamo citare il Laser Mégajoule in Francia e l’impianto laser Shenguang-III in Cina. È possibile che anche la Russia stia facendo dei tentativi in questa direzione anche se non possiamo conoscerne con certezza i dettagli. Inoltre, la generazione di energia non costituisce l’obiettivo principale della NIF. Infatti, la finalità dell’impianto è soprattutto quella di innescare reazioni nucleari da studiare per mantenere aggiornato l’arsenale nucleare degli Stati Uniti.

Vi è dunque molto lavoro da fare prima che la fusione a confinamento inerziale possa diventare davvero una possibile soluzione per rispondere al fabbisogno energetico. In questo panorama variegato di progetti, oggi non vi è in corso neanche un progetto esecutivo che abbia l’obiettivo di costruire una centrale per la produzione di energia da fusione. E per costruire una centrale vera e propria cioè un impianto che non si limiti ad essere un prototipo occorrono una decina di anni. Gli esperimenti stanno facendo importantissimi progressi ma è improbabile che la fusione diventi una fonte energetica significativa funzionante nel giro di pochi anni.

E veniamo finalmente al problema delle scorie radioattive che tanto assilla gli scienziati dediti alla produzione di energia da fonte nucleare. È bene dire subito, che nonostante all’inizio si sperasse che le scorie radioattive prodotte da un reattore a fusione deuterio-trizio rimanessero radioattive per meno di 100 anni, nel 2019 è stato dimostrato attraverso simulazioni a computer, che nel reattore DEMO, successore di ITER, si produrranno materiali radioattivi che richiederanno di essere stoccati più di 1.000 anni prima di essere riutilizzati (per maggiori dettagli si veda il lavoro svolto da Gilbert et altri, intitolato Waste implications from minor impurities in European DEMO materials, pubblicato in Nuclear Fusion 59, 076015, anno 2019).

Tuttavia esistono varie strade per risolvere questo problema. Per cominciare vediamo perché in un reattore a fusione deuterio-trizio si formano delle scorie radioattive. La reazione di fusione, come noto, libera neutroni che da un lato hanno l’importante compito di asportare l’energia dalla camera a vuoto e di trasferirla al liquido di raffreddamento nonché quello di sintetizzare nuovo trizio nella breeding blanket, ma che dall’altro sono i responsabili della creazione di scorie radioattive. Le sofisticate simulazioni statistiche del reattore DEMO ed in particolare del flusso di neutroni che investirà ogni componente del reattore, mostrano che ogni centimetro quadrato delle pareti che si affacciano sul plasma sono colpite da 10000 miliardi di neutroni al secondo.

Dietro la blande è situato lo strato con i liquidi di raffreddamento i magneti ed il bioshield (schermo biologico). Quest’ultimo è costituito da uno spesso strato di calcestruzzo e acciaio, che ha lo scopo di schermare le radiazioni per proteggere il personale addetto al reattore. Anche questi materiali sono investiti da un alto flusso di neutroni, pari a circa tre miliardi di neutroni al secondo per ogni centimetro quadrato. I neutroni bombardano gli atomi del cemento e dell’acciaio, trasformandoli in materiale radioattivo.  Usando un linguaggio più tecnico si dice che i neutroni attivano i materiali circostanti.

Ma che significa che un atomo è radioattivo? Per rispondere a questa domanda è bene precisare che alcuni nuclei atomici esistenti in natura sono instabili, cioè hanno la tendenza a liberarsi di parte materia (sottoforma di massa e/o energia) e a trasformarsi in nuclei più stabili. Per esempio un nucleo di carbonio 14 (il famoso C-14) usato per datare i reperti archeologici) è instabile e si libera della materia in eccesso trasformandosi in azoto-14 (N-14) che invece è instabile La reazione può scriversi in maniera sintetica come segue:

Come si può vedere da questa relazione, schematicamente scritta, il nucleo di carbonio 14 decade in azoto 14, emettendo un neutrone ed un antineutrino elettronico. Gli elettroni emessi in questo processo sono noti come raggi beta ed il nucleo e l’atomo di carbonio 14 sono detti radioattivi. Queste radiazioni che hanno la caratteristica di essere ionizzanti, se sufficientemente intense (come nel caso dei raggi gamma) possono danneggiare i tessuti di tutti gli esseri viventi, uomo compreso. Essi dunque depositano energia nei tessuti organici di un essere vivente, causando anche bruciature che in alcuni casi possono essere molto gravi.

Un meccanismo meno evidente, ma altrettanto nocivo, è quello causato dal bombardamento delle molecole di DNA con radiazione alfa (nuclei di elio 4) o gamma (fotoni ad altissima energia); in tal caso vi è una certa probabilità che la molecola di DNA venga danneggiata e che nel cercare di ripararla la cellula commetta errori e si trasformi in una cellula tumorale. La radioattività non è però un fenomeno esclusivamente legato ai reattori nucleari (che in verità se sono correttamente costruiti e fatti funzionare come si deve non dovrebbero emettere radioattività) ma è sempre esistita e si chiama radioattività naturale.

I fenomeni radioattivi furono scoperti nel 1896 dallo scienziato francese Henri Becquerel, il quale provò che il pechblenda, un minerale contenente uranio, poteva annerire le lastre fotografiche anche se queste erano avvolte in carta nera. Era evidente che si trattava di una qualche radiazione penetrante. Si sa adesso per certo che questa radiazione può consistere di particelle alfa, beta e gamma. Le particelle alfa sono costituite da nuclei di elio 4, le particelle beta da elettroni o positroni e le particelle gamma da fotoni altamente energetici.

Senza accorgercene, noi siamo costantemente bombardati da raggi cosmici che penetrano nell’atmosfera terrestre o da radioattività alfa sprigionata dal decadimento di nuclei di radon presenti nell’aria. La trasformazione di nuclei atomici in altri nuclei, attraverso il decadimento radioattivo è un processo molto diffuso in natura e la vita sulla Terra è nata e si è evoluta con la costante presenza della radioattività naturale. È pertanto possibile un livello sicuro di radioattività, paragonabile all’intensità della radioattività naturale, sotto il quale non vi sono particolari pericoli per la salute.

Al di sopra di questo limite, si sono stabiliti vari livelli di pericolosità. Ecco i principali, in base alla classificazione effettuata dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
– EW (Exempt Waste). Trattasi di scarti che non sono ritenuti pericolosi perché hanno una radioattività così bassa, da non rappresentare un pericolo per la salute pubblica.
– VSLW (Very Short-Lived Waste). Si tratta di scorie con brevissimi tempi di dimezzamento (inferiori a 100 giorni) ovvero che decadono rapidamente. A seconda di che elementi contiene, è sufficiente attendere qualche giorno o qualche mese affinché il loro livello di radioattività scenda sotto il livello di sicurezza. Ricordiamo che il tempo di dimezzamento di una sostanza radioattiva è il tempo durante il quale metà dei radionuclidi di quella sostanza decade.
– LLW (Low Level Waste). Scorie con tempi di dimezzamento di decine di anni o più e con un’attività superiore alla soglia sono classificate come scorie di livello basso e richiedono lo stoccaggio in superficie o in depositi fino a 30 metri di profondità per qualche centinaio di anni.
– ILW (Intermediate Level Waste). Scorie con lunghi tempi di dimezzamento e che richiedono particolari protezioni per la manipolazione ed il trasporto o che presentano una emissione di calore abbastanza grande da richiedere attenzioni speciali sono classificate come scorie di livello intermedio. Vanno stoccate in depositi sotterranei a decine o centinaia di metri di profondità, per ridurre al massimo la possibilità di contatto con la biosfera.
– HLW (Hight Level Waste). Scorie con lunghissimi tempi di dimezzamento (anche di centinaia di migliaia di anni, come nel caso del plutonio 239) e che presentano un’attività così alta da emettere calore per vari secoli, sono classificate come scorie di alto livello e richiedono lo stoccaggio in depositi geologici in profondità ed una gestione del calore emesso, che va asportato costantemente dai depositi.

I reattori a fissione nucleare generano scorie fino al livello più alto (HLW) e tali scorie richiedono un tempo di isolamento di migliaia di anni a causa della loro forte attività e dei lunghi tempi di decadimento. Secondo gli studi effettuati per DEMO, invece, la fusione nucleare di deuterio e trizio, produrrà solo scorie di livello basso e di livello intermedio. Da un lato, questo rappresenta certamente un passo avanti rispetto alla fissione nucleare, ma dall’altra è come una sorta di doccia fredda che spegne l’entusiasmo che da sempre aveva accompagnato l’idea di reattori a fusione liberi di scorie radioattive di livello intermedio e alto. Idealmente, se lo scorie fossero tutte di livello basso (LLW o VSLW), basterebbe stoccarle in superficie all’interno della recinzione del reattore per qualche decina di anni, attendere che la loro pericolosità scenda sotto la soglia di sicurezza ed infine riciclare i materiali nel reattore stesso o in altri settori industriali.

Secondo le simulazioni, nelle zone vicino al plasma, i materiali attivati dai neutroni sono tali per cui occorreranno più di 1000 anni prima che la radioattività scemi abbastanza da consentire il riutilizzo dei materiali. Inoltre ogni paese ha definito in modo diverso i limiti tra le varie classi di scorie. Per esempio, quei materiali che secondo la normativa francese dovrebbero essere stoccati per più di 1000 anni prima di rientrare nella classe degli scarti sicuri, in Inghilterra dovrebbero essere stoccati per soli 300 anni, essendo i limiti britannici meno restrittivi.

Stando alle simulazioni, l’origine di queste scorie è dovuta ad alcune impurezze contenute negli acciai, ovvero a particolari materiali presenti in piccolissime percentuali nei metalli con cui si costruirà DEMO e con cui si sta costruendo ITER. Per esempio i nuclei di cobalto 60 decadono rapidamente per cui, in meno di 100 anni, la loro attività scende sotto la soglia di sicurezza. La situazione è tuttavia diversa, per esempio, per le tracce di azoto 14 e di niobio 94, che hanno rispettivamente tempi di dimezzamento di 5730 anni e di 20000 anni.

Questo vuol dire che dopo 1000 anni, le quantità di questi elementi negli acciai non saranno diminuite in modo percepibile, come si può vedere nei diagrammi di figura 8. Chiaramente non vanno considerati solo i tempi di dimezzamento, ma anche la quantità di scorie e la loro concentrazione. In particolare, in figura 8 sono riportate le curve di decadimento di alcuni nuclei radioattivi prodotti nel reattore DEMO, secondo le simulazioni effettuate da Gilbert et altri, Nuclear Fusion 59 (2019) 076015.

Figura – 8 Curve di decadimento di nuclei radioattivi.

Sulla sinistra, i tempi sull’asse orizzontale sono in scala logaritmica, mentre sulla destra sono in scala lineare. Per risolvere il problema delle scorie vi sono tre strade percorribili. La prima prevede di diminuire la quantità di quelle impurezze negli acciai che, bombardati con neutroni, danno origine a nuclei radioattivi. Da una parte si dovranno studiare nuovi materiali che contengano il minor numero possibile di progenitori delle scorie radioattive. Dall’altra, molte di queste impurezze sono già presenti nei minerali che vengono estratti nelle miniere e quindi il problema si presenta già alla sorgente e non è detto che non si riescano a trovare miniere da cui estrarre materiali più adatti.

Una seconda strada prevede la riprogettazione del tokamak di DEMO in modo da ridurre il flusso di neutroni in certe zone critiche, schermandole maggiormente o sostituendo i materiali investiti dai flussi più intensi con altri, che presentano una minore attivazione. Una possibile alternativa è quella di ridurre il volume del reattore, utilizzando mini-reattori. La quantità di materiale attivato per unità di potenza diminuirebbe notevolmente.

Infine, visto che il problema è generato dai neutroni creati nella fusione deuterio-trizio, si può pensare di costruire reattori a fusione che si basino su reazioni neutroniche, ovvero che non producano neutroni. Infatti, ad esempio, le reazioni di fusione di deuterio con elio-3 e quella di protoni con boro-11 non generano neutroni.

Perché allora non abbandoniamo la fusione deuterio-trizio, a favore di queste ultime? Il problema è che esse presentano ostacoli che ancora non siamo in grado di superare. Vi sono aziende private che stanno sviluppando prototipi basati su queste reazioni alternative. Per esempio, Helion Fusion punta, come suggerisce il nome sulla fusione di deuterio con elio-3, mentre la TAE Technologies sta sviluppando con la forte partecipazione di Google prototipi di reattore protone-boro-11. Uno dei problemi principali di questi approcci è che richiedono temperature molto più alte rispetto a quelle richieste dalla fusione deuterio-trizio: infatti i protoni fondono con nuclei di boro-11 a circa un miliardo di gradi.

L’esperienza DEMO ci insegna comunque che in futuro la comunità scientifica ed i promotori di nuovi prototipi di reattori a fusione dovranno affidarsi sempre più alle simulazioni numeriche per giocare d’anticipo e prevedere il comportamento degli impianti già nella fase di progettazione. Se per esempio si è consapevoli della produzione di scorie radioattive nelle fasi iniziali del progetto, si avrà tempo per cercare una soluzione.

Come vedremo nel prossimo paragrafo, alcuni progetti promettono reattori a fusione commercializzabili intorno al 2030 ed è auspicabile che questo non si trasformi solo in una corsa a chi sviluppa il primo reattore a fusione o a chi riceve più fondi bensì che si dedichino il tempo e l’attenzione necessari a problematiche fondamentali come la sicurezza e la prevenzione per quanto riguarda la generazione di eventuali scorie radioattive.

Il confinamento inerziale ed il mito del fattore Q
Il 13 dicembre 2022, il governo degli Stati Uniti d’America ha annunciato una svolta epocale nella corsa alla fusione nucleare ed in particolare ha diffuso la notizia di aver ottenuto in un esperimento svolto presso il Lawrence Livermore National Laboratory in California, più energia dalle reazioni di fusione di quanta se ne sia utilizzata per attivare queste reazioni La notizia è indubbiamente di grande interesse, ma le parole che sono state adoperate per annunciarla ed il senso che le si è
voluto dare sono stati talmente esagerati da risultare fuorvianti.

In questo paragrafo cercheremo di fare chiarezza sui concetti di fattore Q di ignizione e di breakeven (con questo termine si intende il raggiungimento del punto di pareggio tra l’energia immessa e l’energia prodotta) di un reattore, al fine di fare luce sul vero significato della notizia diffusa a proposito dell’LLNL ed in modo da essere preparati tutti gli annunci ufficiali sulla fusione nucleare.

Infatti visto che questi concetti sono ampiamente utilizzati per definire lo stato di avanzamento di un prototipo, di reattore a
fusione e data l’ambiguità del linguaggio usato negli annunci stampa, è di fondamentale importanza sviluppare un senso critico, in modo da non farsi trarre il inganno e saper interpretare il vero significato delle notizie. A titolo di esempio sono di seguito riportati tre annunci stampa sulla fusione che hanno suscitato scalpore tra il 2021 ed il 2022. Gli annunci suonavano pressappoco come di seguito riportato.
Il laboratorio National Ignition Facility o NIF (il NIF è un ramo dell’LLNL) raggiunge l’ignizione della fusione.
I ricercatori europei raggiungono un nuovo record sull’energia da fusione (JET Laboratory, 9 febbraio 2022)
Grande passo in avanti verso la fusione nucleare in un progetto del MIT (MIT, 8 settembre 2021).

Come traspare da questi annunci vi è una forte tendenza ad annunciare nuovi record infranti e straordinarie svolte storiche: si tratta forse di annunci volti a convincere gli investitori a riversare più finanziamenti nei progetti di ricerca o invece si basano su vere scoperte innovative? Perché se esistono ben precise definizioni di fattore Q di ignizione e di breakeven non vengono quasi mai utilizzate con rigore scientifico negli annunci stampa? Come è possibile che il progetto internazionale punti ad avere il primo reattore allacciato alla rete nel 2050 mentre aziende private promettono la fusione controllata per il 2030? Quanta energia promette di liberare l’impianto ITER rispetto a quella utilizzata per innescare la reazione e mantenere il reattore operativo? E ancora, cosa possiamo dire a proposito del progetto DEMO e dei mini-reattori del MIT-CFS?

In questo paragrafo cercheremo di dare una risposta a queste domande. Tanto per cominciare cerchiamo di capire cosa è realmente successo il 13 dicembre 2022 al LLNL in California. Come già accennato, in questo laboratorio si sta cerca di realizzare la fusione con un metodo completamente diverso da ITER e più in generale dalle macchine a confinamento magnetico. Infatti presso LLNL o, se si preferisce al NIF, dove sono stati sviluppati i laser più potenti del mondo, non si realizza la fusione magnetica bensì quella a confinamento inerziale, nella quale, una capsula di 2 millimetri di diametro contenente un gas di deuterio e trizio viene compressa con l’ausilio di 192 laser: la compressione porta il gas a temperature e densità necessarie affinché si inneschi la reazione di fusione.

Figura 9 – Schema di fusione mediante laser

In figura 9 si può vedere uno schema del cosiddetto bersaglio, su cui vengono concentrati i laser. Sulla destra si può vedere la capsula di deuterio e trizio che viene colpita dai fasci laser. Essa viene posta in un contenitore cilindrico detto Hohlraum su cui vengono inviati 192 fasci. Ecco come si raggiunge la fusione presso l’LLNL:
1. 192 fasci laser vengono direzionati alle due estremità di un minuscolo contenitore cilindrico, chiamato Hohlraum.
2.L’energia dei laser è così concentrata su una capsula del diametro di 2 millimetri, contenente un gas di deuterio e trizio.
3.Nelle ore che precedono l’esperimento, la capsula subisce un processo criogenico che porta alla formazione di un sottile strato di ghiaccio di deuterio e trizio dello spessore di 68 milionesimi di metro. La superficie ghiacciata deve essere simmetrica e liscia, con impurità più piccole di un milionesimo di metro affinché l’esperimento abbia successo.
4.L’energia depositata dai laser provoca la trasformazione della superficie della capsula in plasma, (passo 1 della figura 10).
5.A causa del terzo principio della dinamica di Newton, secondo il quale ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria (principio di azione e reazione), si genera un’onda d’urto che si propaga verso l’interno, comprimendo la capsula contenente il combustibile (passo 2 di figura 10).
6.Quando la capsula raggiunge temperature di qualche milione di gradi, il processo di fusione ha inizio (passo 3 di figura 10).

Figura 10 – Le tre fasi della fusione deuterio-trizio.

E veniamo alla notizia divulgata il 13 dicembre 2022. Essa può essere sintetizzata come segue: dopo aver depositato 2,05 MJ di energia sulla capsula attraverso il laser, la fusione nucleare ha liberato 3,15 MJ di energia ovvero il 154% dell’energia depositata dai laser. La svolta storica risiede nel fatto che fino ad allora nessun esperimento era riuscito ad ottenere più energia dalla fusione di quanta ne fosse stata depositata nel combustibile. Il record precedente apparteneva al tokamak JET in Inghilterra (si riveda la figura 1), che nel 1997 aveva ottenuto dalla fusione il 67% dell’energia depositata nel combustibile (per maggiori dettagli si veda il lavoro di Elizabeth Gibney intitolato Nuclear-fusion reactor smashes energy record apparso su Nature 602, 371 (2022) http://www.nature.com/articles/d41586-022-00391-1).

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